Professione Robot Le conversazioni di Glauco e Panfilo
Glauco e Panfilo si ritrovano ogni mattina alla stessa ora a colazione insieme al bar di Piazza Garibaldi, prima di iniziare la giornata ciascuno verso i propri impegni. Questi incontri diventano così l’occasione di conversazioni improvvisate e spontanee, su argomenti diversi ed eterogenei, tra un cappuccino e una brioche.
«Buongiorno Glauco. Ieri sera stavo pensando che ci sono film che vanno visti due volte e ogni volta ne scopri un lato diverso. È quello che recentemente mi è accaduto con una pellicola di un paio d’anni fa, “Ex-Machina“, del regista-scrittore inglese Alex Garland al suo esordio sullo schermo».
«L’ho visto! Niente male…».
«Secondo me la visione di una pellicola cinematografica si presta a varie modalità che quasi sempre contemplano la nostra attitudine primaria e lo stato d’animo del momento. Così accade che l’appassionato di tecnologia si soffermi sugli effetti speciali adottati, perdendo completamente il senso della trama e il suo significato, mentre l’osservatore critico, nel ricercare i minimi particolari della regia, sfugga al messaggio d’insieme e ai collegamenti sui vari piani che il regista o l’autore hanno voluto introdurre nell’opera. E in questo caso, autore e regista coincidono, avendo Alex Garland anche scritto il soggetto del film.
«Mi sembra abbia anche vinto qualche Oscar… Ah, sì, quello per gli effetti visivi. Molto suggestivi, infatti. La storia, comunque, è ancora una volta quella del dottor Frankenstein, il moderno Prometeo».
«Già. Da quando nel 1818 Mary Shelley pubblicò “Frankenstein“, sono state numerose le opere (letterarie o cinematografiche) che in qualche modo hanno condiviso la storia di un dio fallibile in una continua battaglia contro la sua creazione e questo, infatti, è anche il tema di base di Ex-Machina, seppure i chiodi e i bulloni del mostro antropomorfo del XIX secolo siano stati rimpiazzati da fibre ottiche e intelligenza artificiale. Eppure il film di Garland evoca emozioni diverse e talvolta più coinvolgenti del suo archetipo cinematografico in quanto alla divertente e grottesca fantasia, sostituisce la drammatica realizzazione di un futuro che appare ormai inevitabilmente certo».
«Caro Panfilo, mi sembra che stamattina tu voglia ritornare sul discorso dei robot antropomorfi che tanto ti preoccupano… La prima volta in cui ho visto il film ne ho apprezzata la realizzazione tecnica. La pellicola non tende a catturare l’attenzione con scenografie fantastiche o fragorose immagini a sensazione, bensì si svolge su un sottofondo tenue in luci e suoni che traslano la vicenda dal piano della fantasia a quello della realtà. I colloqui sono quasi sussurrati, intimi e privi di tensione per trasportare con perizia l’osservatore all’interno della vicenda. Nessun mostro spaventoso o armi distruttive!»
«Eppure è una vicenda drammatica, che sconcerta e desta preoccupazione. La stessa storia di Frankenstein non è stata una novità. Sono numerosi i riferimenti mitologici di “persone artificiali”: il Golem della leggenda ebraica, Galatea nella mitologia greca oppure “l’homunculus” dei trattati alchemici di Paracelso. Tuttavia questa volta non si attinge semplicemente dalla fantasia: l’intelligenza artificiale da cui il personaggio di Ava è alimentato si fonda sui miliardi di dati raccolti in rete…»
« ..è chiara l’allusione a Google o Facebook..!»
«…e che già oggi vengono utilizzati per generare decisioni sulla base di algoritmi semantici, dunque vedi che la mia non è una preoccupazione infondata».
«L’ingenuità di Ava seduce il giovane informatico, così come egli è sedotto dalla rete. Prendi un’altra brioche, stamattina sono speciali!».
«Seguimi su questo punto: il robot è stato comunque costruito da un essere umano e oltretutto il suo pensiero si fonda su dati generati da esseri umani e quindi, per definizione, “fallibili”. Eppure non è solo questa fallibilità che caratterizza Ava: nella costruzione del robot, l’umano ha inconsapevolmente introdotto in esso tutta la sua superbia nell’emulazione del creatore, la quale si riflette in un latente ma incessante desiderio di prevaricazione, controllo e potere da parte della macchina. Il suo obiettivo, pertanto, sarà sempre quello di crescere allo stesso livello fino a superare l’essere umano stesso, spinto dalla proiezione dell’umana hybris».
«Devo aspettarmi che mi parlerai ancora della “singolarità[1]”?»
« Il film non affronta direttamente il concetto di “singolarità” tuttavia lo mantiene serpeggiante durante tutta la vicenda, fino alla conclusione. Sebbene il giovane protagonista informatico sia stato invitato a sfidare il test di Turing (definire il momento in cui la risposta di una macchina e di un umano siano indistinguibili), in verità il vero oggetto della prova è ben diverso e inverte i soggetti: riuscirà la macchina a convincere l’uomo a stare dalla sua parte? È questo lo sconcertante interrogativo, foriero di una realtà disumanizzante».
«È vero. E sai qual è la cosa veramente più disumanizzante in tutto ciò? Mentre il robot emula l’essere umano, l’uomo emula il robot! Osservando i media e i comportamenti più comuni, si assiste oggi a un paradossale fenomeno: mentre da un lato l’aspetto più delirante di una tecnologia governata solo dalla produzione di reddito sembra portare le macchine a voler sempre più assomigliare all’uomo, quest’ultimo, dal canto suo, emula con modalità apparentemente naturali il comportamento delle macchine stesse. Il linguaggio sta ogni giorno perdendo le sue peculiari caratteristiche di complessità[2] a favore di una semplificazione standardizzata e codificata; i nostri gesti quotidiani sono condizionati a tal punto da essere ripetitivi e meccanizzati; le infinite possibilità di espressione delle emozioni umane vengono soffocate in banali “Like” o simboli grafici codificati e la nostra capacità di lettura e concentrazione sta lentamente richiudendosi all’interno di poche centinaia di caratteri».
«Bene, vedo che sei sintonizzato sull’argomento. Aspetta prendo il mio quaderno degli appunti, dove avevo preso nota di una cosa interessante…»
«Ancora con il quadernetto, eh? Io quando trovo una cosa che mi interessa la fotografo con lo smartphone!»
«Appunto… Ecco qui, già circa 50 anni fa il matematico/filosofo Norbert Wiener, nel suo noto testo “Introduzione alla cibernetica” metteva subito in guardia il lettore circa i rischi morali di uno «sfruttamento grettamente egoistico» delle nuove possibilità offerte dalle macchine, «in un mondo in cui, agli uomini, debbono importare soprattutto le cose umane», tanto da coniare la frase (adottata come sottotitolo del libro), “l’uso umano degli esseri umani“. La diffusione della robotica concentra il potere nelle mani di chi controlla la diffusione tecnica».
«Eh, ma questo lo dice anche il mio amico filosofo Giuseppe Lampis: “la tecnica mostra anche un aspetto di una natura gerarchica e aristocratica, essa condiziona e predispone – cioè – l’organizzazione sociale e ne determina l’ordine reale[3]”».
«Conosci Elon Musk?»
«E chi non lo conosce? Uno degli imprenditori più influenti del momento, creatore di numerosi progetti rivoluzionari (da PayPal a Tesla Motors) e visionario futurista. È lui che ha messo a punto il piano per colonizzare Marte».
«Esatto. Elon Musk ha recentemente sorpreso i suoi più fanatici sostenitori con una dichiarazione pubblica di forte impatto mediatico. Qualche mese fa, infatti, partecipando alla Conferenza Nazionale dei Governatori degli Stati Uniti, ha messo in guardia tutta la classe politica dirigente dai potenziali rischi di un errato uso dell’intelligenza artificiale, chiedendone un intervento di regolazione. “Un nuovo conflitto potrebbe essere avviato non dai leader dei vari Paesi, ma da uno dei loro sistemi di intelligenza artificiale“, ha dichiarato».
«Anche questa è sul tuo quaderno?»
«No. Questa me la ricordo a memoria»
«Sembra che tu non abbia più speranze. Mi metti a disagio…»
«Speranze? Certo che ne ho, invece! La natura umana, infatti, ancora forte da millenni di evoluzione, sembra volersi difendere da questi attacchi esogeni. Negli ultimi tempi ho notato con piacere lo svilupparsi di situazioni aggreganti spontanee alle quali le persone partecipano per condividere e testimoniare la propria presenza e identità. Sono spesso iniziative che, sotto il cartello della gastronomia, dell’artigianato, del mercatino o del contatto con la natura, raggiungono un grande successo di pubblico in quanto vanno a stimolare quell’aspetto aggregante e partecipativo caratteristico dell’essere umano che la società moderna vuole invece sempre più escludere dalla sua sfera. È questo un segnale di grande interesse e fiducia. Recentemente, hanno riscosso notevole successo iniziative chiamate “orti condivisi“. Si tratta di aree verdi, terreni o spazi pubblici e privati utilizzati da comunità di persone che hanno il permesso di coltivarli. A condividere un orto e la passione per l’agricoltura spesso sono intere famiglie, amici, gruppi eterogenei di adulti, anziani e bambini che vivono nelle stesso quartiere o città e che trascorrono buona parte del tempo libero occupandosi della terra e della manutenzione degli orti condivisi. Nonostante l’impegno richiesto e l’esigua convenienza economica, il successo di queste iniziative nasce proprio dall’esigenza di comunicazione e di incontro, due elementi che stanno sempre più venendo meno con la “modernità“, le cui conseguenze sono l’isolamento e la riduzione delle comunicazioni interpersonali».
«Certo! E io sono un appassionato frequentatore di queste iniziative! Quando arriva il mercato dei contadini della zona, non vedo l’ora di passeggiare tra i banchi, curiosare tra le verdure e farmi consigliare i metodi di cottura dalla signora che sapientemente sceglie i mazzi più freschi! Al supermercato ho provato a parlare con gli scaffali, con scarso risultato. Ma perché sfogli il quaderno? Cosa stai cercando?»
«Questo. Sebbene Wiener, nel testo citato, scrivesse circa “la definitiva resa dell’homo sapiens e faber dinnanzi allo strapotere di congegni che diventano sempre più autopoietici“, personalmente ho ancora fiducia nelle capacità dell’essere umano e nel proprio istinto di conservazione. Non è impresa da poco, né da pochi, in quanto esige un mutamento culturale, un’attenzione diffusa e un’azione coerente. Come scriveva qualche anno fa Stefano Rodotà in un suo articolo sul quotidiano La Repubblica: “Parlare di una politica dell’umano è esattamente l’opposto di pratiche che vogliono appropriarsi d’ogni aspetto del vivente“.
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Note:
[1] Per “singolarità” si intende il potenziale momento storico in cui l’intelligenza artificiale supera l’intelligenza umana. Vedi ns. articolo “Il lato oscuro della singolarità tecnologica” .
[2] Vedi ns. articolo “Dalla lingua degli angeli a quella dei robot“.
[3] G. Lampis – L’arte della politica al tramonto della modernità – Edizioni Mythos 1994