Il punto cieco del materialismo scientifico
Il problema del tempo è uno degli enigmi più misteriosi della fisica moderna. Il primo rompicapo è cosmologico: per capire il tempo, gli scienziati parlano di una “prima causa” o “condizione iniziale”; tuttavia per determinare le condizioni iniziali di un sistema, occorre prima conoscere il sistema stesso nella sua totalità, effettuare misurazioni di posizione e velocità delle sue componenti e così via. Ciò pone un insormontabile ostacolo quando si tenti di indagare le origini dell’Universo in quanto non è possibile avere una visione dall’esterno; in altri termini, non è consentito uscire dal sistema in quanto il sistema stesso è tutto ciò che esiste. Una “prima causa” non è solo inconoscibile, ma anche scientificamente incomprensibile.
La scienza considera il tempo fisico come l’unico tempo “reale” possibile, ponendo in secondo piano il tempo “esperienziale” (il senso soggettivo del trascorrere del tempo), definendolo come una struttura cognitiva di secondaria importanza. Anche il giovane Einstein era di questo parere, sebbene pochi anni prima della sua morte fosse profondamente turbato dall’idea di trovare il giusto posto dell’umana esperienza del tempo nella visione scientifica.
E se la domanda sull’inizio del tempo fosse mal posta? La gran parte del mondo occidentale è convinta che la scienza può dare una descrizione oggettiva e completa della storia del cosmo, distinta da noi e dalla nostra percezione dello stesso. Eppure quest’immagine della scienza è profondamente imperfetta: spesso è stato commesso l’errore – nella nostra hỳbris di tutto poter conoscere e controllare – di confondere una serie di scoperte con leggi della natura.
È noto che ciascun occhio umano contiene un “punto cieco“, una piccola area della retina in cui non sono presenti recettori per la luce, ed è quindi cieca. Metaforicamente, anche la scienza soffre di un tale punto cieco – che essa stessa non può vedere – e laddove siede l’esperienza e la pura cognizione della percezione vissuta.
Questa modalità potrebbe essere definita come materialismo scientifico, il quale combina l’oggettivismo scientifico (la scienza ci parla del reale, un mondo indipendente dalla mente) e fisicalismo (la realtà fisica è tutto ciò che esiste). Particelle elementari, momenti nel tempo, geni, il cervello: tutto ciò è considerato fondamentalmente l’unica realtà, mentre esperienza, consapevolezza e coscienza sono ritenute secondarie. Il compito scientifico diventa quindi capire come ridurre questi fenomeni “secondari” a qualcosa di fisico, come il comportamento delle reti neurali, l’architettura dei sistemi computazionali o qualche misura di informazione.
L’oggettivismo scientifico implica che la realtà fisica non venga mai incontrata al di fuori delle nostre osservazioni: tutto si manifesta solo attraverso le nostre misurazioni, modelli e manipolazioni. Ciò non significa che la conoscenza scientifica sia arbitraria o una semplice proiezione delle nostre menti: al contrario, alcuni metodi di indagine funzionano molto bene e offrono risultati accettabili. Tuttavia questa metodologia non rivela mai la natura così come è in sé stessa, al di fuori del nostro modo di vedere e agire sulle cose. L’esperienza è tanto fondamentale per la conoscenza scientifica quanto la stessa realtà fisica che rivela.
Secondo il fisicalismo, inoltre, la scienza sostiene che tutto – compresa la vita, la mente e la coscienza – può essere ridotto al comportamento dei più piccoli costituenti materiali. Non siamo altro che i nostri neuroni, e i nostri neuroni non sono altro che piccoli pezzi di materia. La vita e la mente spariscono, ed esiste solo la materia senza vita.
Queste due posizioni, che convergono entrambe verso il materialismo scientifico, evidenziano un’interpretazione errata o quantomeno incompleta della realtà poiché non tengono conto di una variabile fondamentale, probabilmente oscurata dal “punto cieco”, che è la coscienza umana.
Dopo tutto, il significato del termine “fisico” è cambiato radicalmente dal XVII secolo. Una volta si pensava che la materia fosse inerte, impenetrabile, rigida e soggetta solo alle interazioni deterministiche e locali. Oggi sappiamo che questo è sbagliato sotto tutti gli aspetti: accettiamo che ci siano diverse forze fondamentali, particelle che non hanno massa, indeterminatezza quantistica e relazioni non locali. Dovremmo aspettarci ulteriori cambiamenti drammatici nel nostro concetto di realtà fisica in futuro e per queste ragioni, non è semplicemente possibile banalizzare su ciò che il termine “fisico” possa significare.
Il filosofo e matematico tedesco Edmon Husserl sosteneva che l’esperienza vissuta è la fonte della scienza. È assurdo, secondo Husserl, pensare che la scienza possa uscirne fuori: il “mondo della vita” dell’esperienza umana è il “terreno radicato” della scienza, e la crisi esistenziale e spirituale della cultura scientifica moderna – il punto cieco – deriva dal dimenticare il suo primato. Anche Alfred North Whitehead, che insegnò all’Università di Harvard dagli anni ’20, sosteneva che ciò che chiamiamo “realtà” è costituito da processi in evoluzione che sono ugualmente fisici ed esperienziali. Dal Dizionario di Filosofia Treccani: “Whitehead ha svolto la sua riflessione filosofica nell’intento di dare una fondazione e una prospettiva alla stessa indagine scientifica: di qui l’elaborazione di una cosmologia filosofica ove fosse possibile superare la contrapposizione soggetto-oggetto e l’analisi matematico-meccanica della natura. Whithehead indica come «luogo» cruciale della sua visione del mondo l’«evento» in cui la realtà si esprime nella sua interezza, in quanto l’«evento» intenzionalmente comprende la totalità, quasi in un atto di sentire profondo”.
La scienza rappresenta essenzialmente una forma molto raffinata di esperienza umana, basata sulla nostra capacità di osservare, agire e comunicare. In altri termini, un’acuta presa di coscienza.
Secondo l’interpretazione di Copenaghen di Niels Bohr, ad esempio, la funzione d’onda non ha ragione di esistere al di fuori dell’interazione tra l’elettrone e il dispositivo di misurazione. Altri approcci, come le interpretazioni di “molti mondi” e “variabili nascoste”, cercano di preservare uno status indipendente dall’osservatore per la funzione d’onda, tuttavia ciò aggiunge elementi come universi paralleli non osservabili. Un’interpretazione relativamente nuova nota come Quantum-Bayesianism (QBism) – che combina la teoria dell’informazione quantistica e la teoria della probabilità bayesiana – prende una direzione diversa: interpreta le probabilità irriducibili di uno stato quantistico non come un elemento della realtà, ma come i gradi di convincimento che un operatore ha sul risultato di una misurazione. In altre parole, fare una misura è come fare una scommessa sul comportamento del mondo, e una volta effettuata la misurazione, aggiornare la propria conoscenza. I sostenitori di questa interpretazione a volte lo descrivono come “realismo partecipativo“, perché l’esperienza umana è intessuta nel processo fisico come mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Da questo punto di vista, le equazioni della fisica quantistica non si riferiscono solo all’atomo osservato ma anche all’osservatore e all’atomo nel suo complesso, in una sorta di “partecipazione dell’osservatore”.
Il realismo partecipativo è controverso, ma è proprio questa pluralità di interpretazioni, con una varietà di implicazioni filosofiche, che mina la sobria certezza della posizione materialista e riduzionista sulla natura.
Questo ci riporta al punto cieco. Quando si osservano gli oggetti della conoscenza scientifica, non si tende a rilevare le esperienze che li realizzano. Non viene evidenziato come la coscienza renda possibile la loro presenza e poiché si perde di vista la necessità dell’esperienza, viene eretto un falso idolo della scienza come qualcosa che conferisca una conoscenza assoluta della realtà, indipendentemente da come si presenti e da come si interagisca con essa.
Occorre a questo punto però entrare nel dettaglio di come procede il metodo scientifico. In primo luogo, tutti gli aspetti dell’esperienza cosciente – sui quali non è sempre possibile essere d’accordo (i qualia) – vengono tenuti da parte ed esclusi dal processo; secondo, usando la logica e la matematica, vengono realizzati modelli formali e astratti come oggetti di comune consenso; terzo, si interviene nel corso degli eventi isolando e controllando ciò che può essere manipolato; quarto, quei modelli astratti vengono usati per calcolare eventi futuri; quinto, vengono verificati gli eventi previsti. Un ingrediente essenziale di tutto il processo è la tecnologia: macchine – gli equipaggiamenti – che standardizzato le procedure, amplificano i poteri della percezione umana e consentono di controllare i fenomeni.
Il punto cieco si evidenzia nel momento in cui si inizia a sostenere che questo metodo garantisce la rivelazione di una realtà incondizionata e oggettiva, mentre invece si tratta solo di modelli idealizzati dalla mente umana. Come il piano inclinato senza attrito di Galileo o la formulazione dell’atomo di Bohr, questi modelli esistono solo nella mente dello scienziato, non in natura. Si tratta di rappresentazioni mentali astratte, non di entità indipendenti dalla mente e la loro forza deriva proprio dal fatto che sono utili per aiutare la realizzazione di previsioni sperimentabili o come innesco verso intuizioni geniali. La scienza rappresenta essenzialmente una forma molto raffinata di esperienza umana, basata sulla nostra capacità di osservare, agire e comunicare. In altri termini, un’acuta presa di coscienza.
Quindi la convinzione che i modelli scientifici corrispondano alla realtà oggettiva, non deriva dal metodo, quanto – piuttosto – da un antico impulso di tracotanza dell’uomo che vuole erigersi a conoscenza suprema. In fondo, tale pretesa di realtà oggettiva è molto più religiosa che scientifica.
L’esperienza soggettiva e ciò che viene chiamato “realtà” sono in effetti due mondi inestricabili. La conoscenza scientifica è rappresentata dallo stretto evolversi congiunto del mondo e della nostra percezione di esso: una volta apprezzata questa forte relazione, le maggiori domande della scienza potrebbero essere completamente riformulate.
Tornando al problema iniziale del tempo e della ricerca di una “prima causa”, ogni religione ha la sua cosmogonia di creazione dell’Universo. Per descrivere da dove viene il tutto e come viene originato, si assume l’esistenza di un potere assoluto o di una divinità che trascende i confini dello spazio e del tempo: con poche eccezioni, gli dei creano dall’esterno per dare origine a ciò che è il nostro Universo.
Per tentare di “vedere” il punto cieco è necessario risvegliarsi dall’illusione di conoscenza assoluta…
A differenza del mito, tuttavia, la scienza è costretta dal suo quadro concettuale a camminare lungo una catena causale di eventi. La prima causa è una chiara rottura di tale causalità: come potrebbe esserci una causa che non era di per sé un effetto di qualche altra causa? Anche l’idea di una prima causa, come l’idea di una realtà perfettamente oggettiva, è fondamentalmente religiosa.
Questi esempi suggeriscono che il “tempo” avrà sempre una dimensione umana. Il miglior obiettivo a cui sarà possibile mirare è quello di costruire un resoconto cosmologico scientifico che sia coerente con ciò che si può misurare e conoscere dall’interno dell’Universo. Il resoconto non potrà mai essere una descrizione finale o completa della storia cosmica, piuttosto sarà una narrativa continua e autoregolante. Il “tempo” è la spina dorsale di questa narrazione e la nostra esperienza del tempo è necessaria per rendere la narrativa significativa. Con questa intuizione, sembra che il tempo del fisico sia semplicemente uno strumento per descrivere i cambiamenti che siamo in grado di osservare e misurare nel mondo naturale e – quindi – dipenderà sempre da come verrà percepito dalla nostra esperienza cosciente.
A questo punto, è possibile meglio valutare il significato più profondo dei tre enigmi scientifici: la natura della materia, la coscienza e il tempo. Puntano tutti verso il punto cieco e la necessità di riformulare il modo in cui si pensa alla scienza. Quando si cerca di comprendere la realtà concentrandosi solo su cose fisiche al di fuori di noi, si perdono di vista le esperienze a cui puntano e le percezioni che ne derivano. Gli enigmi più profondi non possono essere risolti in termini puramente fisici, a causa dell’inevitabile presenza di esperienza umana nell’equazione: non c’è modo di rendere la “realtà” separata dall’esperienza, perché i due sono sempre intrecciati in un entanglement.
Per tentare di “vedere” il punto cieco è necessario risvegliarsi dall’illusione di conoscenza assoluta, oltre che abbracciare la speranza di poter creare una nuova cultura scientifica in cui l’uomo vede sé stesso – allo stesso tempo – come un’espressione della natura e come il soggetto di autocomprensione della natura stessa. Solo una scienza che sappia considerare la presenza delle esperienze coscienti umane all’interno del processo di ricerca, potrà affrontare gli enigmi più misteriosi della natura che si porranno nel nuovo millennio.