Le incognite sconosciute dell’innovazione: il caso delle nanoparticelle nelle creme solari
Nel 1943 Thomas Watson, allora Presidente dell’IBM, dichiarò: “Credo che esista un mercato per almeno 5 computer nel mondo“. Ovviamente, i calcolatori di quell’epoca erano i grandi mainframe come l’ENIAC (vedi foto). Non avrebbe mai potuto immaginare che i personal computer (PC, portatili, tablet, smartphone) sarebbero divenuti comuni strumenti di lavoro e intrattenimento per tutti, nell’arco di pochi decenni.
La citazione dimostra quanto sia impossibile prevedere il futuro, soprattutto di fronte a problemi che contemplano le cosiddette “incognite sconosciute“. Queste incognite hanno molte implicazioni per la progettazione di un’innovazione responsabile: come sarà possibile affrontare i rischi di cui non si è nemmeno a conoscenza?
Un quadro molto chiaro di questa situazione viene offerto dal “dilemma di Collingridge“: “Quando il cambiamento è facile, non se ne prevede l’esigenza: quando il bisogno di cambiamento è ormai evidente, il suo costo è ormai elevato, difficile e richiede molto tempo per l’attuazione.” Traslando il dilemma sull’argomento dei nostri giorni, si giunge alla conclusione che nelle prime fasi dello sviluppo tecnologico, la tecnologia può ancora essere cambiata, ma non se ne evidenzia la necessità. Nelle fasi successive, gli effetti sono chiari ma la tecnologia è diventata così radicata nella società da essere difficile – se non impossibile – da modificare.
Nel corso della progettazione di un sistema innovativo da introdurre in una società, si percorrono in genere due tipi di approcci: l’analisi del rischio e il principio di precauzione.
Per l’analisi del rischio si affrontano i seguenti passi: determinare i rischi di una nuova tecnologia, quindi decidere se questi rischi sono accettabili. Il rischio è inteso come la probabilità di occorrenza moltiplicata per l’effetto causato, ma spesso il problema è che la probabilità è sconosciuta, con conseguente incertezza. A volte non si riescono nemmeno a determinare tutte le possibili conseguenze. Quindi, l’analisi del rischio non è attuabile.
Un approccio alternativo è rappresentato dal principio di precauzione (o cautelativo), derivato proprio come conseguenza dal dilemma di Collingridge. Ci sono varie formulazioni, ma la più ricorrente è la seguente, definita durante la Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Earth Summit) di Rio de Janeiro del 1992: “Al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale“. A livello europeo il principio di precauzione è stato ufficialmente adottato come uno strumento di decisione nell’ambito della gestione del rischio nel campo della salute umana, animale e ambientale.
Si noti che questo principio non richiede la determinazione di una probabilità e può quindi anche gestire situazioni in cui sia appurata incertezza. Tuttavia, anche questo sistema porta con sé alcuni inconvenienti che potrebbero fornire soluzioni contrastanti e antitetiche. In definitiva, con l’introduzione di nuove tecnologie nella società ci saranno sempre rischi di sviluppi inaspettati: sostenibilità, danno fisico per l’uomo, danno psicologico, dipendenza, ecc.
Nel 2007, il gruppo di esperti dell’Unione europea su Scienza e Governance ha tradotto questa conclusione come segue: “Ci troviamo in uno stato inevitabilmente sperimentale il quale – inoltre – viene spesso nascosto alla vista e alla negoziazione pubblica. Se i cittadini vengono regolarmente coinvolti senza consapevolezza come soggetti sperimentali in esperimenti che non vengono dichiarati tali, devono essere affrontate alcune serie questioni etiche e sociali.” (Ibo van de Poel – An Ethical Framework for Evaluating Experimental Technology– Springer 2016).
Il professor Ibo van der Poel (cattedra di Etica e Tecnologia dell’università di Delft – Olanda) ha recentemente proposto di considerare l’introduzione di nuove tecnologie nella società come “esperimenti sociali” sottoposti a consenso da parte dei cittadini, ponendo inoltre la domanda: “in quali condizioni tali esperimenti sono moralmente accettabili?”.
Per meglio illustrare questa proposta, si può far riferimento a un caso di studio sulle nanoparticelle di biossido di titanio introdotte nelle creme solari, facendo riferimento allo studio “Sunscreens with Titanium Dioxide (TiO2) Nano-Particles: A Societal Experiment” di Johannes F. Jacobs, Ibo van de Poel e Patricia Osseweijer pubblicato in “Nanoethics”. Le particelle di dimensioni nanometriche (pochi milionesimi di millimetro) sono utilizzate negli schermi solari come alternative agli assorbenti chimici UV esistenti, ma occorre considerare che le lozioni solari sono generalmente commercializzate come semplici “prodotti cosmetici” nella maggior parte dei paesi, inclusa l’Unione Europea. Questo utilizzo specifico del biossido di titanio nano-dimensionato è già stato commercializzato da oltre un decennio ed è diventato uno degli esempi più ampiamente utilizzati di applicazioni nanotecnologiche presenti (di prima generazione).
L’uso di nanoparticelle nei cosmetici pone una sfida normativa perché le proprietà delle nanoparticelle possono variare enormemente, secondo le loro dimensioni, forma, superficie e rivestimenti. Non si ha ancora una conoscenza dettagliata delle loro prestazioni in quanto i produttori non sono tenuti a rivelare la qualità delle particelle utilizzate nei loro filtri solari.
La valutazione e la gestione del rischio tecnologico richiede invece la conoscenza dei possibili effetti dell’applicazione, dell’esposizione e della relazione tra gli effetti e l’esposizione. Questa informazione è generalmente basata su dati statistici e studi tossicologici; tuttavia tali cognizioni non sono per lo più disponibili per le nuove tecnologie a causa delle ovvie incertezze presenti durante la fase di progetto e di implementazione iniziale.
Ad esempio, per quanto riguarda il TiO2 di dimensioni nanometriche, non vi è ancora un parere condiviso sulla penetrazione di queste nanoparticelle attraverso la pelle. Studi iniziali hanno indicato che le particelle di nano- TiO2potrebbero penetrare negli strati superficiali, tuttavia questi risultati sono stati confutati, poiché la metodologia non ha potuto differenziare tra particelle penetranti e particelle intrappolate nei follicoli piliferi.
In alcuni casi, non è nemmeno dato sapere se un rischio esista oppure meno: siamo nel caso paradossale delle “incognite sconosciute“. Generalmente questa causa di incertezza viene definita “ignoranza” (nel significato ristretto del termine) e oscura sia la valutazione che la gestione del rischio, in quanto è assolutamente difficile – se non impossibile – anticipare le conseguenze di pericoli che ci sono sconosciuti. In poche parole, non sappiamo per cosa dobbiamo prepararci e questa è esattamente la situazione dell’immissione sul mercato delle creme solari alle nanoparticelle di biossido di titanio.
Per tutti i filtri solari, compresi lo zinco su scala nanometrica e il titanio, è urgente eseguire valutazioni ambientali approfondite in modo che i “regolatori” possano disporre dei dati necessari per iniziare a controllare i pericoli associati all’uso diffuso di questi e altri ingredienti chimici nei prodotti per la cura personale.
L’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro ha citato il biossido di titanio come possibile causa di tumore. Tuttavia, il componente è disponibile in diverse dimensioni e non è ancora definito se anche nella dimensione di nanoparticelle sia pericoloso. Non si è ancora in grado di determinare in anticipo e con adeguata precisione i rischi connessi alle nanoparticelle. Innanzitutto, hanno effetti cumulativi e di interazione a lungo termine che non possono essere testati in laboratorio, e in secondo luogo, i test di laboratorio spesso non sono rappresentativi delle circostanze della vita reale.
Nella sua proposta di “esperimento sociale“, il prof. van der Poel ha formulato quattro principi fondamentali affinchè la sperimentazione sia accettabile in questo caso:
- La comprovata assenza di metodi alternativi per acquisire le conoscenze necessarie per una valutazione completa del rischio.
- La controllabilità dell’esperimento, che include il monitoraggio dei possibili effetti e il feedback di tali effetti.
- Il consenso informato.
- Una revisione continua dei rischi, basando le decisioni sull’uso continuato sui risultati di tale revisione.
Il consenso informato – secondo van der Poel – è uno dei fondamentali principi etici per giudicare l’accettabilità degli esperimenti con gli esseri umani. Stabilisce che i soggetti umani dovrebbero essere completamente informati sui rischi e sui benefici attesi e dovrebbero anche consentire liberamente e consapevolmente di partecipare all’esperimento. In questo caso, ciò si traduce in due condizioni più specifiche: i consumatori dovrebbero essere informati ed essere in grado di terminare la propria partecipazione all’esperimento in qualunque momento.
Applicando queste condizioni al caso in questione, risultano pertanto alcuni elementi non soddisfatti: innanzitutto, si sarebbero dovute effettuare più valutazioni del rischio prima dell’introduzione nella società e inoltre mancavano il monitoraggio, l’etichettatura e la revisione continua.
Tornando infine al dilemma di Collingridge, un approccio “anticipatorio” che tende a ricercare tutti i rischi prima dell’introduzione della tecnologia, potrebbe risolvere solo la prima parte del dilemma (“Quando il cambiamento è facile, non se ne prevede l’esigenza“), cercando di rendere la tecnologia più prevedibile, ma mantenendo il limite della seconda parte. L’idea di una nuova tecnologia come esperimento sociale tenta invece di risolvere proprio questa seconda parte del dilemma, accettando che alcuni effetti diventino chiari solo quando le tecnologie vengono introdotte nella società e – come conseguenza – cercando di evitare che l’innovazione sia immessa sul mercato pubblico troppo in anticipo.
Secondo il prof. van der Poel, l’immissione sul mercato pubblico a grande diffusione di un qualunque tipo di innovazione radicale rappresenta oggi un “esperimento sociale” condotto però senza tener conto delle quattro regole principali che lo definiscono, sollevando così un serio problema di accettabilità morale della tecnologia.