Autofac e i “sogni elettrici” di Philip K. Dick
Come spesso accade a scrittori e artisti, anche Philip Dick è stato rivalutato e apprezzato solo dopo la sua prematura morte avvenuta nel 1982 all’età di 54 anni. Philip Kindred Dick è stato uno scrittore statunitense e oltre ad essere stato particolarmente noto nell’ambito della fantascienza, ha saputo esplorare nei suoi racconti anche temi filosofici, sociali e politici con grande abilità e sensibilità, dimostrando inoltre una notevole predisposizione nel saper interpretare i segni precursori del tempo e intuirne la possibile destinazione.
Numerose sono state le opere cinematografiche realizzate sulla base dei suoi lavori, ma forse le più popolari sono ancora – per il momento – Blade Runner (di Ridley Scott), che introduceva un androide perfettamente antropomorfo e indistinguibile dagli umani e Minority Report (di Steven Spielberg), laddove una speciale sezione di polizia era in grado di sfruttare le capacità sensoriali di individui “precognitivi” per arrestare il crimine ancor prima che venisse commesso.
«Tutto il suo lavoro parte dall’assunto di base che non può esistere una sola, oggettiva realtà», scrive di Dick lo scrittore Charles Platt. «È tutta una questione di percezione».
Recentemente, un gruppo di sceneggiatori inglesi e americani ha lavorato a lungo su alcuni dei suoi racconti ricavandone una serie televisiva dal titolo “Philip K. Dick’s Electric Dreams“, andata in onda qualche mese fa su Channel 4 nel Regno Unito e solo da qualche settimana disponibile anche nel circuito Prime Video di Amazon. Nonostante si tratti di un format di “serie televisiva“, quest’opera consiste in 10 episodi indipendenti, ciascuno dei quali rappresenta ed elabora un problema diverso e autonomo dagli altri, pur essendo intrecciati tutti nel caratteristico filone distopico dello scrittore.
Ieri sera ho visto l’episodio dal titolo “Autofac“, al quale si potrebbe facilmente assegnare il sottotitolo: “Cosa accade a un mondo progettato per la pura automazione, quando quel mondo poi si disgrega?”. La realizzazione tecnica è certamente delle migliori nel suo genere e se ne apprezza sicuramente la sceneggiatura più “British” che “American“.
Gli uomini (nel futuro) sono arrivati a costruire una fabbrica assolutamente indipendente e automatica, l’Autofac. Senza la necessità di esseri umani, la fabbrica provvedeva a reperire le materie prime (tramite droni) avviare le procedure di produzione e consegnare grandi imballaggi con elicotteri senza pilota. Tutta la fabbrica era governata da un’intelligenza artificiale centrale e da numerosi androidi antropomorfi, ognuno con una mansione specifica. L’Autofac era stata progettata per non chiudere mai e per continuare indefinitamente la propria produzione.
Una guerra nucleare distrugge il mondo, lasciando solo un piccolo gruppo di umani che lotta per la sopravvivenza in un villaggio, ma che deve anche fare i conti con l’oppressione di una Autofac che continua a consegnare merci a utenti che ormai non esistono più. Per gli abitanti del villaggio questo rappresenta un grande problema: la fabbrica infatti inquina la terra, divorando quantità sempre maggiori di risorse naturali e – inibendo loro ogni possibilità di sviluppo – li trascina sempre più verso una difficile sopravvivenza. Una giovane donna del villaggio, con l’aiuto di altri volontari, organizza così una “trappola” per cercare di convincere un umanoide artificiale di Autofac a invertire la tendenza e chiudere la fabbrica.
Fin qui sembra tutto andare secondo le normali regole di un racconto lineare, eppure la scaltrezza letteraria di Dick (e degli sceneggiatori) introduce un elemento di “invenzione narrativa“. Ciò si traduce nel guidare il lettore (o lo spettatore) lontano dalla comprensione di cosa stia realmente accadendo, fino all’ultimo momento in cui tutto è finalmente rivelato. E la rivelazione è questa: sia la giovane protagonista che i suoi compatrioti non sono reali, ma robot androidi così come quelli di Autofac, realizzati dalla fabbrica stessa affinché il processo di produzione possa continuare ad avere clienti soddisfatti a cui consegnare le merci. L’intelligenza artificiale, pertanto, realizza e “crea” una nuova razza umana di androidi che ripopolerà il mondo e che provvederà al necessario “consumo” della produzione.
Tralascio l’ultimo colpo di scena a favore di coloro che preferiscono vedere l’episodio senza conoscerne la conclusione.
Philip Dick è senza dubbio interessato a voler evidenziare, in questo racconto, i pericoli derivanti dal non saper interpretare le diverse possibili conseguenze della scelta tecnologica o al suo rovescio della medaglia: è la logica del mondo moderno in cui la convenienza economica è l’unico obiettivo e l’invenzione la sua unica ricompensa. La “fabbrica” è diventata così centrale e indispensabile tanto da costituire l’unico elemento di rilevanza in un mondo assoggettato al consumo e alla continua sostituzione dei ricambi. L’uomo diventa così l’oggetto, non più il soggetto, che rappresenta la ragione per cui la fabbrica esiste.
Appare necessario rilevare – in tutto ciò – l’evidente ironia che un racconto come questo sia poi distribuito negli USA proprio dalla rete televisiva privata di Amazon, il colosso del consumismo e della distribuzione! Appropriarsi del messaggio di Autofac senza fare nulla sembra essere un’azione inutile; fare qualcosa, invece, al fine di porre nuovamente l’uomo come soggetto (almeno nelle attività di Amazon) sarebbe molto costoso. D’altronde, a pensarci bene, è più facile e sicuramente molto più remunerativo pubblicare un episodio in TV e ricavarne gli utili!
Cos’è Autofac (una fabbrica che produce incessantemente prodotti di consumo o copie di tali prodotti, gratuitamente) se non un regalo avvelenato per l’umanità?
Risulta incredibile pensare che Philip Dick scrisse questa storia oltre 60 anni fa, nel 1955.