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Il futuro avrà ancora bisogno dell’uomo?

 

Intelligenza Artificiale “debole” e “forte”

Alcuni scienziati, come Stephen Hawking e Stuart Russell, ritengono che se un’Intelligenza Artificiale (AI) raggiungesse un giorno la capacità di ri-progettare se stessa a un ritmo sempre crescente, un’inarrestabile “esplosione di intelligenza” potrebbe portare rapidamente all’estinzione della razza umana (Singolarità Tecnologica). Non c’è dubbio che gli studi e le ricerche sull’Intelligenza Artificiale, se finalizzati agli unici paradigmi di guadagno commerciale, potere militare e speculazione tecnologica, rappresentano oggi una delle maggiori minacce esistenziali per l’umanità.

Sono ormai numerosi i laboratori nel mondo nei quali si stanno sviluppando tecnologie associate all’AI, tuttavia solo alcuni di essi rendono talvolta noti i loro risultati. Ma dai segnali – seppur frammentati – che giungono è oltremodo facile intuire l’esposizione a notevoli rischi, anche se mascherati dal velo opalescente della “modernità”.

Per chiarire ed evitare generalizzazioni: semplici implementazioni di Intelligenza Artificiale certamente positive sono già parte del nostro quotidiano da tempo. Ogni volta che accendiamo una lavatrice di ultima generazione oppure navighiamo su Google o Facebook, complessi algoritmi adattivi ci guidano e facilitano nel compito, apprendendo i nostri comportamenti o le nostre esigenze.

Recentemente ho installato un nuovo termostato “intelligente” per il riscaldamento della mia abitazione. Dopo un breve periodo di apprendimento durante il quale il sistema impara a conoscere le mie esigenze di temperatura, le caratteristiche di dispersione della casa e quelle di riscaldamento dei termosifoni, il programma propone la sua soluzione “intelligente” di riscaldamento. Attraverso i suoi algoritmi, l’applicazione regola l’accensione e lo spegnimento della caldaia tenendo conto dell’isteresi termica dei termosifoni, dei parametri di raffreddamento della casa e dell’efficienza termica della caldaia, tenendo sempre la temperatura al livello desiderato e risparmiando circa il 20% dei consumi.

Tuttavia questi sono casi di AI “debole” o limitata: un’intelligenza artificiale non senziente, concentrata su un solo compito ristretto. Di contro, l’obiettivo a lungo termine di molti ricercatori internazionali è la “Strong-AI“, così definita nella sua critica dal filosofo John Searlequella che non si limita a considerare il computer come un utile strumento di indagine della mente umana, ma si spinge ad affermare che, con opportuni programmi, esso diviene analogo alla mente umana ed è quindi capace di comprendere e di avere altri stati cognitivi“. Mentre l’AI-debole può superare gli esseri umani qualunque sia il suo compito specifico, come giocare a scacchi o la risoluzione di equazioni, la Strong-AI è tesa a superare gli esseri umani per la maggior parte delle funzioni cognitive.

 

Androidi nell’immaginario

L’androide è un essere artificiale, un robot, con sembianze umane, presente soprattutto nell’immaginario fantascientifico. Sono numerosi i riferimenti mitologici di “persone artificiali”: il Golem della leggenda ebraica, Galatea nella mitologia greca oppure “l’homunculus” dei trattati alchemici (Paracelso).

Nelle sue prime rappresentazioni letterarie o cinematografiche (ad esempio la donna-robot di Metropolis – 1927) è sempre stato ben chiaro e delimitato il confine tra l’androide e l’essere umano: i primi avevano comunque sembianze meccaniche o facilmente riconoscibili, tali da non generare mai confusione di ruoli. Ma già nel 1982, il film-cult di Ridley Scott “Blade Runner” introduceva un androide perfettamente antropomorfo e indistinguibile dagli umani. Da allora l’inquietudine generata dalla sovrapposizione dei ruoli si è moltiplicata attraverso molte opere di fantascienza le quali immaginano un futuro in cui l’umanità dovrà necessariamente confrontarsi con esseri fisicamente identici all’uomo (Real Humans, AI – Intelligenza Artificiale, Alien, Ex Machina).

È interessante invece notare come nella colossale saga cinematografica di George Lucas “Guerre Stellari“, iniziata del 1977 e giunta al settimo episodio nel 2015, seppur popolata da innumerevoli esseri viventi di mondi alieni, i robot androidi sono sempre ben distinguibili dalle altre forme viventi. In altri termini, Lucas ipotizza un futuro in cui non viene mai travalicato il confine dell’intelligenza tra essere biologico e struttura meccanica. Lo stesso personaggio malvagio di Dart Fener, seppur tenuto in vita da un complesso sistema bio-tecnologico, mantiene l’uso della propria mente umana.

 

Perché un robot antropomorfo?

Hanson Robotics Inc. è una società di Richardson (Texas) fondata da David Hanson nel 2003. Il loro motto è: “Portiamo in vita i robot” e questa è la loro dichiarazione di missione: “La nostra missione a lungo termine è di migliorare notevolmente la vita quotidiana delle persone con robot a prezzi accessibili, molto intelligenti che insegnano, servono, intrattengono, e siano in grado di sviluppare un rapporto profondo con la gente. Con il tempo, ci auguriamo che i nostri robot intelligenti possano veramente capire e curare le persone e raggiungere una saggezza ancor più grande di quella umana, fino al punto che essi un giorno saranno in grado di dedicarsi e risolvere alcuni dei problemi più difficili che dobbiamo affrontare“.

Questa dichiarazione, chiaramente formulata per indirizzare un messaggio positivo e catturare l’attenzione del pubblico, genera invece un profondo senso di sconcerto.

Riportiamo in questo articolo un breve video di Sophia, un robot umanoide creato dalla Hanson Robotics, che conversa con un giornalista. Il creatore David Hanson ha sviluppato il progetto nei minimi dettagli, compresi quelli estetici, perché è convinto che la gente sarà più disposta a interagire con l’intelligenza artificiale se questa avrà sembianze umane.

Sorge però a questo punto la necessità di porre un quesito fondamentale: se i robot sono progettati per assistere e facilitare alcune funzioni comuni dell’essere umano, per quale ragione viene a loro dato un aspetto antropomorfo? Nel caso del robot-Einstein appare evidente che un interlocutore umano sarà più facilmente portato ad affidare la propria fiducia alle parole e ai gesti di Einstein piuttosto che a ciò che viene ascoltato da un altoparlante di una macchina! In questo modo, però, l’affidamento diventa anche una pericolosa riduzione di capacità critiche e valutative.

In ogni diversa cultura, gli esseri umani provano gioia, tristezza, disgusto, rabbia, paura, sorpresa, e indicano queste emozioni con le stesse espressioni facciali. Usiamo tutti lo stesso “motore biologico”, anche potendo essere dipinti di colori diversi: si tratta dell’unità psichica del genere umano. Quando qualcosa è abbastanza universale nella nostra vita quotidiana, lo diamo per scontato, fino al punto di dimenticare che esiste generalizzando i comportamenti.

Non sorprende che spesso gli esseri umani abbiano la tendenza a proiettare atteggiamenti antropomorfi verso aspetti e proprietà di oggetti o ciò che non è umano. Nel film “Matrix“, l’agente Smith (un prodotto di Intelligenza Artificiale) appare inizialmente con un volto impassibile e passivo. Ma più avanti, mentre interroga gli umani, dà sfogo al suo disgusto per l’umanità e la sua faccia assume l’espressione universale del viso umano per la ripugnanza. In un rapporto tra umani è naturale affidarsi a questo istinto adattativo per meglio comprendere i sentimenti e le emozioni del nostro interlocutore. Tuttavia nel caso in cui l’interazione coinvolga una controparte non umana, l’antropomorfismo rappresenta una trappola seducente che porta spesso all’errore.

Questa “inclinazione” antropomorfa può essere classificata come molto insidiosa soprattutto se l’interlocutore ha sembianze umane: si svolge automaticamente, senza alcuna deliberazione, senza presa di coscienza a fronte di una conoscenza solo apparente dell’oggetto che si ha di fronte. La realizzazione di un robot con sembianze antropomorfe rappresenta perciò una tecnica per amplificare ancor più la tendenza umana a voler proiettare nell’altro una “coscienza”, catturando in questo modo con maggiore efficienza un completo e cieco affidamento dell’uomo al mezzo tecnologico.

 

Conclusioni

Seppur la previsione di Alan Turing si sia dimostrata troppo ottimistica nei suoi tempi di attuazione, l’inesorabile progresso dell’AI negli ultimi anni suggerisce che il sociologo Premio Nobel Herbert Simon fosse nel giusto quando affermava (nel 1956) che “le macchine saranno capaci di svolgere qualsiasi lavoro svolto oggi dall’uomo“. Se questo fosse veramente il futuro dell’umanità, non dovrebbe essere perciò ignorata la domanda: ma il futuro avrà poi bisogno di noi? Quale sarà il compito degli umani?

È fuor di dubbio come l’AI (in particolar modo l’AI-debole) sia di aiuto nel migliorare alcune nostre attività, liberandoci da compiti spesso gravosi e nel contempo ottimizzando le risorse. Tuttavia, le ricerche orientate verso la Strong-AI e la realizzazione di un’intelligenza in grado di simulare quella dell’uomo sembrano non tener conto di specifici fattori fondamentali, irriproducibili artificialmente, che appartengono solo alla modalità umana di pensare e di esistere.

Pochi mesi fa il professore di Filosofia e Etica dell’Informazione dell’Università di Oxford, Luciano Floridi, ha dichiarato che “sarà impossibile realizzare un’automobile senza conducente in grado di prendere decisioni etiche“, eppure Google e Tesla Motors, ignorando questa e decine di altre opinioni simili, stanno procedendo con lo sviluppo di questo mezzo di trasporto.

Immaginiamo un’auto senza conducente che sta accelerando lungo un ponte a cento chilometri l’ora quando improvvisamente un minibus scolastico con 15 bambini a bordo attraversa il suo percorso. L’automobile sterzerà, rischiando la vita del suo conducente al fine di salvare i bambini, oppure andrà avanti mettendo i quindici bambini a rischio? La decisione dovrà essere presa in pochi millisecondi e sarà completamente nella responsabilità di un computer.

Eppure questo esempio è forse tra i più semplici ed evidenti. Percorrendo la strada di voler realizzare robot “umanoidi”, saranno migliaia i quesiti etici che dovranno essere posti e che – molto probabilmente – saranno irrisolti o addirittura ignorati. Eppure supponiamo per un attimo che la ricerca e la tecnologia sarà un giorno in grado di realizzare un androide perfetto. Ebbene, se queste macchine saranno veramente “perfette”, potranno essere in grado di riprodurre se stesse portando inesorabilmente verso drammatiche conclusioni.

Ma prima ancora di giungere a una conclusione porrei una domanda: che cosa è un uomo? La sua intelligenza, la sua capacità intuitiva, il suo desiderio di sapere, di amare, di soffrire, di vivere la bellezza, di comprendere il proprio ruolo nel mondo o semplicemente di sentirsi ‘docile fibra dell’universo’ hanno un senso?

L’uomo contemporaneo, conscio della sua ‘umanità’ sta indirizzando le sue ricerche per realizzare un “amplificatore” d’intelligenza umana, a supporto e accrescimento delle insostituibili capacità mentali, psicologiche, spirituali dell’uomo o ritiene queste ormai obsolete e superflue? E dunque non potremmo presto accorgerci che è diventato superfluo l’uomo stesso, così imperfetto rispetto a un’Intelligenza Artificiale che sembra sostituirlo perfettamente e che anzi, essendo priva di immaginazione, emozioni, sentimenti può risultare molto più efficiente, più facilmente gestibile e poter raggiungere, secondo la nota formula weberiana, il massimo rendimento con il minimo sforzo?

 

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