Dharma – La storia di una parola
[traduzione da: “The Difficulty of Being Good – on the Subtle Art of Dharma“, Gurcharam Das, Oxford University Press, 2009.]
Come spesso accade, occorre iniziare dal Rig Veda (1500 a.C.), il più antico testo dell’India, laddove la parola ‘dharma’ ricorre 60 volte, riferendosi principalmente a riti religiosi. Nello svolgere questi riti e i compiti tradizionali, l’uomo vedico raggiungeva un senso di ordine nel suo mondo. Il dharma lo aiutava a preservare l’identità e la continuità delle tradizioni, oltre a fornire un ordine stabilito e un’armonia al suo universo. Il termine deriva dalla radice sanscrita dhr (supporto, sostentamento). Gli studiosi collegano dharma a dharana, che significa ‘supportare’ o ‘mantenere’, e in questo senso si riferisce alle ‘eterne leggi che mantengono il mondo’ [R.Lingat – La legge classica dell’India]. L’impegno a sostenere lo spazio del mondo viene esteso anche al significato di ‘mantenere separato’ nella cosmogonia vedica. È il mezzo che separa il cielo dalla terra, così come le altre cose quali piante, fiumi e le quattro principali caste della società. Pertanto, il rituale vedico del dharma rimette in azione l’atto cosmico originale di ‘sostenere’ e ‘mantenere separato’.
Più tardi, nell’Atharva Veda, dharman si traforma nel più astratto dharma. Qui non si riferisce al ‘sostenere’ come un’azione o un evento, ma al suo risultato: una norma, una legge o un ordine stabilito [dharma purana – L’antica legge]. Il Mahabharata segue questa linea, rammentandoci che “le creature sono separate o sostenute nelle proprie rispettive identità dal dharma” e che l’ideale di ahimsa (non-violenza) è una forma di dharana. Nel momento in cui si giunge a Manu [ndt: figlio di Brahma, legislatore e capostipite dell’umanità], il “sostentamento” del dharma è incombente su tutti gli uomini; esso rappresenta anche la condizione che preserva, è preservata e distrugge quando è violata. Il dharma protegge i suoi sostenitori. Tale equilibrio di “sostentamento” nel cosmo e nell’etica – sia nelle azioni umane che negli eventi naturali – è centrale nella visione classica del mondo indiano.
Nella letteratura canonica del Dharmashastra, che elabora i ruoli del dharma nel dettaglio, il termine non rappresenta comunque una legge universale: viene applicato solo agli Ari, in particolar modo ai bramini. Vengono esclusi i mleccha (fuori casta). Esso rappresenta il tradizionale dharma Indu “dell’ordine delle caste e degli stadi della vita”. Tuttavia, il concetto correlato di karma tendeva a mitigare la particolarità del dharma. Il karma è sempre, naturalmente, universale: la sua causalità, che lega fondamentalmente l’uomo ai risultati della sua azione, si applica a tutti.
I Buddisti e i Gianisti si appropriarono del termine “dharma” e iniziarono a usarlo secondo le loro necessità; ciò portò inevitabilmente verso una plurità di significati della stessa parola. Ben presto le sette induiste di Vishnu e Shiva prevalsero, dichiarando il loro come l’unico vero “dharma”.
Non si poteva negare che non vi sarebbe stata una reazione da parte dei più ortodossi difensori dei Veda e questa giunse dalla potente scuola di Mimamsa. Secondo Kumarila, il suo più rilevante esponente, dharma rappresenta una pratica di rituali. Essa può essere appresa solo dai Veda e non esiste alcun altro mezzo per conoscerla. I bramini che primeggiano nei riti sacrificali sono “penetrati dal dharma”, che può essere presente solo negli Ari e non nei mlecchas. È pericoloso lasciare il dharma alla ragione. Nei testi Mimamsa e Dharmashstra il dharma separa le caste e distingue gli Ari dai non-Ari. Chiaramente, nella tradizione ortodossa, il “sostenere” del dharma rappresenta il sostenere di uno status quo sociale e religioso.
Pertanto, il concetto di dharma ha continuato ad evolversi nella contestazione. Il suo significato è scivolato da un’etica di atti rituali verso una virtù più personale basata sulla coscienza per poi tornare all’antico significato. Ai tempi dei Veda il dharma rappresentava l’azione di visibili rituali e il conseguente accrescimento dei meriti. Tali atti erano solitamente specifici di una casta e questo dharma veniva spesso chiamato sva-dharma. Con l’apparire delle sette yoga – Buddismo e Gianismo – questo significato di dharma cambiò gradualmente fino a indicare armonia sociale, la cura di un’etica personale, estendosi a tutte le caste. In tal senso il dharma ha un’attrazione universale e viene chiamato sadharana-dharma. Entrambi i significati del dharma coesistono nel Mahabharata.
Procediamo ora ad un rapido salto in avanti fino a giungere ai primi anni del diciannovesimo secolo. Per la prima volta troviamo che gli Indu – in particolar modo la scuola di Chaitanya – inziano a usare il termine ‘dharma’ come Hindudharma per identificare la loro fede come qualcosa di diverso dall’Islam e dal Cristianesimo. Fin ad allora gli Indu non avevano mai usato “dharma” per indicare “religione”. Questo fu in parte una reazione ai missionari cristiani in Bengala che rivendicavano il “dharma”, usando il termine per proclamare il Cristianesimo come il “vero dharma”.
L’appropriarsi da parte dei missionari cristiani di un’idea fondante degli Indu fu chiaramente una sfida verso l’identità propria degli Indu stessi. I missionari riconobbero che il dharma rappresentava la norma vincolante della vita Induista, la quale forniva legittimità alle loro pratiche religiose e sociali, così capitalizzarono il messaggio Cristiano sotto il titolo di dharma. Gli Indu reagirono con due diverse modalità. Da un lato, sostennero che l’Induismo fosse universale, una religione e un dharma per tutti; dall’altro, proiettarono il dharma come un’idea superiore alla “mera religione”.
Rammohan Roy (1774-1833) fu uno dei primi bengalesi a rispondere a questa sfida. Egli intese riformare l’Induismo attraverso un’organizzazione aperta e deista, chiamata Brahmo Samaj. I suoi oppositori impiegarono la parola “dharma” come una nozione centrale dell’auto-affermazione Indu. Uno di essi, Kasinath Tarkapanchanana, descrisse se stesso come “una persona preoccupata di difendere il dharma”. Un altro critico, Radhakanta Deb, fondò un’associazione chiamata Dharma Sabha. In seguito, nacquero molte altre “società del dharma” durante la seconda metà del diciannovesimo secolo, spesso esplicitamente opposte al Brahmo Samaj e altri movimenti di riforma, in particolare l’organizzazione Arya Samaj nel Punjab. L’espressione sanatana-dharma (religione eterna) divenne presto una modo popolare per far valere le rivendicazioni dell’ortodossia tradizionale.
Allo stesso tempo, le moderne idee occidentali inziarono a plasmare il significato di “dharma”. Bankimchandra Chattopadhyay, lo scrittore bengalese, sotto l’influenza di John Stuart Mill e di Auguste Comte, propose il dharma come il collegamento tra l’essere e il dovere. A suo parere, il dharma fluisce “dall’essenza dell’uomo” e impone un obbligo morale su ciascun essere umano. Nella sua interpretazione umanistica del concetto, Bankim ci riporta indietro verso le regole di Yudhishthira, il concetto universale del dharma che abbiamo trovato nel Mahabharata. L’interpretazione di Bankim lo portò inevitabilmente sul percorso del bhakti yoga di liberazione spirituale nel Gita, e lontano dai rituali vedici dei bramini.
Più tardi fu Ashay Kumar Datta (1820-1886), un altro bengalese, a secolarizzare e naturalizzare il concetto di dharma, dichiarando che osservare il dharma rappresentava in ultima analisi il conformarsi alle “leggi della natura”. Verso la fine del diciannovesimo secolo, Swami Vivekananda portò questo dharma universale in Europa e America. Egli parlò di un “dharma di umanità”, riferendosi al dharma come a un codice etico applicabile alla totalità degli esseri umani. Insieme ad altri esponenti bengalesi del neo-Induismo egli influenzò profondamente B.G.Tilak, Mohandas Ghandi e altri leader della lotta per la libertà dell’India, nella prima parte del ventesimo secolo. Questa nuova comprensione del dharma a l’auto-rappresentazione dell’Induismo – che era riuscita a sopravvivere a un incontro con l’Occidente – influenzò a sua volta anche studiosi occidentali come Annie Besant, la leader del movimento Teosofico. La Besant venne in India nel 1893, lo stesso anno in cui Vivekananda si presentò al Parlamento delle Religioni a Chicago. Sanatana-dharma iniziò così ad essere associato al concetto occidentale di philosophia perennis, una “religione universale o eterna” alla ricerca di una comunanza con tutte le religioni.
Il filosofo S.Radhakrishnan promosse il “neo-Induismo” nel ventesimo secolo. Egli dichiarò che il dharma “è la norma che sostiene l’universo, il principio di una cosa in virtù della quale è ciò che è“. E ancora, “una persona che segue il dharma realizza l’ideale del suo proprio carattere e manifesta l’eterna legittimità in se stesso”. Perciò, “il principio fondamentale del dharma è la realizzazione della dignità dello spirito umano” [S.Radhakrishnan – Religion and Society – Londra 1952].
È straordinario come una parola e un’idea possa essersi evoluta e arricchita, dai tempi dell’antico Rig Veda, percorrendo oltre tremila anni in un così lungo processo di contestazione e adattamento.